Domenico Cimarosa arrivò a Vienna pochi giorni dopo la morte di Mozart e ci fece rappresentare quel che resta il suo capolavoro il 7 febbraio 1792, esattamente due mesi (o forse due mesi e un giorno) dopo che Amadé era già disceso, ricoperto di calce viva, nella fossa comune. Il matrimonio segreto di Cimarosa e di Giovanni Bertati (che libretto delizioso, però) è un Mozart-Da Ponte senza velleità di denuncia sociale o riscatti illuministi, una satira sociale all’acqua di rose (il solito arrampicatore sociale borghese che ha due figlie da maritare e ne vuole sposare almeno una a un nobiluomo) che si stempera nella piacevolezza di una vena melodica sempre fluente, morbida, lieve. Si direbbe: un capolavoro aproblematico, di una leggerezza che non è superficialità ma non nasconde chissà quali possibili livelli di lettura. Del resto, le notizie che arrivavano dalla Francia erano pessime, e il nuovo Cesare absburgico, quel Leopoldo II che aveva già conosciuto e apprezzato il tenero Cimarosa quando faceva il granduca a Firenze, non aveva nessuna intenzione di proseguire nella politica culturale illuminata e generosa, ma alla fine autolesionista, di suo fratello Giuseppe II di poca venerata memoria.
Ora, non c’è epoca (relativamente) recente più innocente e stolidamente felice dell’America anni Cinquanta, quando Doris Day era ancora vergine, Rock Hudson non ancora gay e Gene Kelly cantava in technicolor sotto la pioggia. È a questo immaginario, come dicono i colti, che fa riferimento la produzione del Matrimonio segreto importata al Regio di Parma nientemeno che dall’Opera di Tenerife, con la regia di Roberto Catalano, le scene di Emanuele Sinisi, i costumi di Ilaria Ariemme, le luci di Fiammetta Baldisseri e le coreografie di Sandhya Nagaraja. Quindi Geronimo, il borghese di cui sopra, è un pasticcere italiano che ha fatto fortuna sulla Broadway con la sua «Geronimo & Co.» (un logo che ricorda molto quello di Tiffany), tutta colori pastello rosa e azzurri come in un drugstore da telefilm, e i cui dipendenti stanno sì lì a pasticciare ma in realtà appena hanno un attimo libero si mettono a sgambettare come in un musical. L’unico, pare, che lavora davvero, sempre a spostare scatoloni, è il tenore Paolino, sposo in segreto della secondogenita di Geronimo, Carolina, di cui si innamora anche il Conte Robinson che invece, allettato dalla ricca dote, dovrebbe sposare la primogenita Elisetta. A complicare le cose, di Paolino s’invaghisce pure Fidalma, sorella di Geronimo e dunque zia della di lui moglie Carolina: qui pro quo a ripetizione finché le coppie “giuste” non si ricompongono. Lo spettacolo di Catalano carbura forse un po’ lentamente ma poi diventa una delizia, fra citazioni cinematografiche, controscene spiritose, vivacità generale ma senza eccessi farseschi e, vivaddio, le famigerate mossette che «fanno tanto Settecento». E soprattutto ha il pregio di non appesantire un’opera che è un capolavoro di leggerezza.
A cantarlo, un gruppo di giovani. Devo dire che capisco come queste opere siano spesso scelte per farli debuttare o per concludere un periodo di studio: non sono troppo difficili da cantare. E tuttavia vorrebbero un dominio della parola, un’abilità di fraseggio, una sottolineatura del testo che è raro i giovin principianti abbiano (paradossalmente, sarebbero molto più facili da interpretare i personaggi adolescenziali, forsennati e, come dire?, unidimensionali di qualche Verdi “di galera”: certo però che bisognerebbe anche cantarli…). Insomma, qualcosa manca, benché la compagnia sentita a Parma fosse benissimo preparata sia dal punto di vista musicale che da quello scenico. Si trattava di Giulia Mazzola (Carolina, forse vocalmente la più matura), Antonio Mandrillo (Paolino, uscito piuttosto bene da «Pria che spunti in ciel l’aurora», la prima della lunga serie di hit tenorili dell’opera italiana), Francesco Leone (già con una bella disinvoltura come Geronimo) e poi Veta Pilipenko (Fidalma, l’unica a non uscire dall’Opera Studio di Tenerife), Marilena Ruta (Elisetta) e Jan Antem (Robinson). Giovane anche il direttore, Davide Levi, che garantisce un bel ritmo e molta vivacità, e pure l’orchestra (a me ignota) che porta il nome promettente di Cupiditas e che, al netto di qualche accordo un po’ slabbrato, ha suonato assai bene. Eccellenti il continuo di Hana Lee e i mimi, specie Samuel Morelli che fa una vecchia invadente con cagnolino al guinzaglio (molto simile, salvo la bestia, a quelle della platea, che tengono semmai al guinzaglio dei mariti annoiatissimi) salvo poi trasformarsi nel finale, appunto, in Gene Kelly.
Teatro meno vuoto di quanto si potesse temere per il combinato disposto di Sanremo e della non strabordante popolarità di Cimarosa, prima diffidente e poi francamente festante, e repliche fino a domenica 19.
“Giovane anche il direttore, Davide Levi, che garantisce un bel ritmo e molta vivacità.”
“Young is also the conductor, Davide Levi, that ensures a good rhythm and a lot of vivacity.”
Giovane anche il direttore, Davide Levi, che garantisce un bel ritmo e molta vivacità, e pure l’orchestra (a me ignota) che porta il nome promettente di Cupiditas e che, al netto di qualche accordo un po’ slabbrato, ha suonato assai bene. Eccellenti il continuo di Hana Lee e i mimi, specie Samuel Morelli che fa una vecchia invadente con cagnolino al guinzaglio (molto simile, salvo la bestia, a quelle della platea, che tengono semmai al guinzaglio dei mariti annoiatissimi) salvo poi trasformarsi nel finale, appunto, in Gene Kelly.
Teatro meno vuoto di quanto si potesse temere per il combinato disposto di Sanremo e della non strabordante popolarità di Cimarosa, prima diffidente e poi francamente festante, e repliche fino a domenica 19.